VI.
- Andrea Trofino
- 10 lug 2010
- Tempo di lettura: 3 min
Da quando scomparve dalla mia vita le ore si susseguivano lente e noiose e le giornate erano sempre ed esattamente le stesse ed uguali a milioni di altre così come ogni individuo è uguale ad altri milioni di esemplari così come io adesso mi ritengo uguale e identico a chiunque si appresti a posarsi sull’orizzonte della mia lunga vista di un falco pellegrino senza più le ali di un condor predatore. Eppure vi è sempre un paradosso in ciò che affermo e per quanto simile mi possa sentire alla razza umana che mi circonda nel globale circo del nostro mondo, alle persone che più mi stanno accanto mi sento alieno e alienato, come se la testa partisse in orbita tra altre stelle e tra altre stalle in universo di neuroni differenti. Non c’è nulla di più angosciante di provare la totale diversità nei confronti di chi hai davanti, come se la persona che incontri o potresti incontrare ti desse l’impressione di essere solo la parvenza di uno strano animale di razza inferiore con gli occhi cattivi quasi intento a sbranarti vivo. Di certo io non ho nessun pedigree eppure è come se sentissi all’interno del mio defunto animo di appartenere ad una rara razza nobile e forse anche mobile in un qualche senso obliquo, in un senso in cui scendere e risalire attraverso uno strano attrezzo da giostra dal più profondo degli abissi alle più alte stelle, è l’umore il movimento scostante, ciò che mi rende mobile a differenza degli altri, è l’umore che obliquo tende a farmi cercare disperatamente un equilibrio attraverso quel marchingegno astratto chiamato amore. La livella della vita fino a quando si è in vita. Come se esso fosse la forza riequilibratrice di un umore scosceso tra salti in giù nella grotta dell’anima e scoppi verso l’alto tra le nuvole di zucchero filato, dolcezza e diabete divino di piccoli fuochi artificiali che si accendono direttamente all’interno delle vene pulsanti del cuore. Ebbene, questo moto interiore che comunque porta ad un moto scostante e disequilibrato esteriore ci rende instabili e ci fa cadere più volte e non ci fa dirigere dritti verso la nostra meta personale in maniera costante e allora non facciamo altro che cadere e ricadere. Non è quando siamo innamorati che cadiamo in amore, ma è quando lo cerchiamo con più disperazione possibile che non facciamo altro che buttarci sulla sabbia della terra a strisciare in nome di un ideale che forse neanche esiste se non nella nostra mentre allenata a pensare che vi sia da qualche parte nell’universo di certo qualcosa che ci possa rendere immortali e felici. Poveri uomini illusi che ben sanno già anche l’ora della propria morte e che per poter vivere hanno bisogno di attaccarsi addosso a tutti i costi anche una grande pena, a volte sì anche molto dolce, ma proprio come lo zucchero che s’attacca alla pelle, diventa appiccicoso, caldo e fastidioso e poi… poi non vorremo nient’altro che liberarcene ma gli sforzi saranno sempre più vani una volta caduti nella trappola melmosa dove proprio come le sabbie mobili più cercherai di dimenarti per liberarti più sarai costretto a vivere in una trappola tesa al collo che ti soffocherà fino a toglierti il fiato. Il fiato corto di chi sta lì quasi per morire o non riesce più a correre in salita.
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