Due austeri signori
- Andrea Trofino
- 17 gen 2020
- Tempo di lettura: 2 min
Due austeri signori ho incontrato sulla mia strada per Contrada Ciffatte. Uno portava lo sguardo truce di chi è stato tradito dalla vita con un cappellino vecchio, la barba incolta e gli occhietti azzurri sotto una testa riccia rabbiosa, la sigaretta accesa tra le dita tozze, la panza che traballava di birra. L’altro un ometto inutile, basso, scuro, con le spalle talmente strette che sembra avere solo collo, segno di codardia e vigliaccheria, un piccoletto porta scalogna fallito sul nascere e con la missione ormai fatta sua di far fallire o almeno tentare di farlo con tutti quelli che lo sfiorano con la sua maldicenza: uno iettatore nato. Io sono il terzo uomo. Un alieno. Non c’entro nulla eppure mi ritrovo questi due austeri signori che si prendono anche gioco di me. E’ il gioco della solitudine. E’ un cerchio che piano piano si restringe e ti costringe ad avere a che fare con coloro che nelle tue notti da bambino erano gli uomini neri dei tuoi incubi. La solitudine sconfinata può rendere una persona come un criminale vagabondo. Non avete idea. Non avete idea di cosa faccia tutta la solitudine del mondo. E’ quella cosa che intristisce la vita, il boccone amaro da ingoiare a forza a tratti del percorso oppure ad un certo tratto, una lunga fermata del trenino dell’amore in una stazione deserta. Pochi riescono a fuggirne. Il mondo ha un fottuto bisogno di relazioni. Allora perché le persone si chiudono in altri mondi che ne sono privi? E’ la paura della felicità (felicità è comunque una parola grossa) e ciò di cui abbiamo paura corrisponde solo e sempre al nostro più grande desiderio. Non bisogna avere paura della propria paura, si vive male nell’ansia. La paura equivale al desiderio. I desideri vanno esauditi. Le paure vanno dunque accontentate. I due austeri signori conoscono solo la paura e sono privi di desiderio. Vecchi già da giovani, andati. Vorrei rimetterli in carreggiata come si dice, ma quando un’auto sbanda e si rompe il motore dell’anima la macchina resta quella: ferma, immobile, sbandata. Sola.
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